mercoledì 29 febbraio 2012

Effetto farfalla

L'ultima volta che lo vide era NewYork, tra l'Hudson River e l'Empire State Building. L'autunno ingialliva le foglie e la neve cadeva a larghi fiocchi leggeri che si dissolvevano nell'aria. Lo vide comparire tra la folla che sembrava consapevole del fatto che serviva uno spiraglio di spazio affinchè i loro occhi s'incontrassero sulla stessa traiettoia. Accadde. E quando gli occhi s'incrociarono, la folla scomparve, il bruiso s'interruppe, e la voce di lei rimase sospesa nella gola come una bolla di sapone incagliata tra due sporgenze. Lui la guardò e usò gli occhi come parole. Lei si fermò, e nel silenzio, immobile, lesse quelle parole dentro il blu degli occhi. Sbattè le ciglia lentamente e i fiocchi di neve diventarono polvere leggerissima, poi svaporarono nell'aria. Deglutì la bolla, e solo allora ricominciò il brusio e i neon ripresero a lampeggiare. Gli occhi di lui,  rimasero invece fermi e fissi a guardarla, come il un fermo immagine di un film. Era autunno e nevicava, e lei sapeva che sarebbe comparso proprio da quell'angolo della strada. Un pò come Horacio Oliveira, ma quella è un'altra storia. L'ultima volta che lo vide cercò di registrare di lui tutto quello che poteva, negli occhi e nella mente, perchè NewYork è un posto troppo lontano e troppo affollato e non è facile incontrasri così per caso. E lei non era Lucia. All'angolo tra l'Hudson River e l'Empire State Building, da quella notte, ci sono stati almeno 20 autunni, gialli come allora e con la neve leggera che sembrava carta velina. Ogni volta che si trova a passare per quelle strade, nell'aria c'è sempre un odore di terra bagnata e di bosco, la schiena di un uomo che scompare dietro l'angolo, una ragazza che canta questa canzone qui e una farfalla che sbatte le ali dall'altra parte del mondo.

PuntoG

mercoledì 22 febbraio 2012

La sottomissione


Spulciando nella rete ho trovato un blog dal titolo sovversivo "Sposati e sii sottomessa" di Costanza Miriano, che vi invito a leggere perchè è davvero interessante. In una zona a parte del blog c'è la definizione del suo intendere con "sottomissione". Sarò un pò fuori moda e sovversiva anche io, ma mi ci sono ritrovata in quasi ogni parola. A parte le maratone e i 4 pargoli, direi che potrei averlo scritto io. E l'argomento era da un pò che mi frullava in testa. Lo posto integralmente così come lei l'ha scritto. Con un grazie all'utrice, ovviamente. Dimenticavo, trovo bellissimo il sottotitolo del libro (il titolo è il nome del blog) "Pratica estrema per donne senza paura"!!!

PuntoG
La sottomissione


Allora chiariamo subito una cosa. Ognuno deve fare la sua parte. C’è chi predica e chi razzola. Io mi candido per la parte della predicatrice, che razzolare bene è troppo faticoso.

Detto questo vorrei chiarire la questione della sottomissione. Quella di cui parlo io non ha molto a che fare con la divisione dei compiti pratici. Anche una donna che lavora, e che lo fa ad alto livello, può essere sottomessa se ascolta il marito, lo rispetta, tiene in gran conto le sue opinioni e le mette prima delle proprie. Io invito le donne alla sottomissione, ma nel frattempo lavoro in un telegiornale nazionale, ho girato documentari a New York e corso maratone oltre Oceano. Insomma, ho fatto il militare a Cuneo. Credo comunque che le donne si debbano riappropriare della loro vocazione all’accoglienza della vita, quella che viene dal loro essere morbide, capaci di ricucire i rapporti, di fare spazio, di intessere relazioni, di tirare fuori da tutti il meglio. Che mettano questo loro genio femminile in cima alle priorità. Non c’entra niente con il trovare un marito ricco da (fingere di) sopportare in cambio di sicurezza economica. C’entra invece con la lealtà, la dedizione, la dolcezza.

Quanto ai ruoli e ai rapporti di forza tra i sessi devo a malincuore ammettere una cosa. Essere donna mi ha procurato solo vantaggi: ignoro se la mia auto possegga una ruota di scorta, ed eventualmente dove si nasconda, la subdola. Non ho la minima idea di come, attraverso quali misteriose vie la mia casa venga rifornita di energia elettrica, calore, gas. Posso guardare Sex and the city e trascorrere svariati minuti a scegliere uno smalto senza perdere il mio prestigio, perché la mia frivolezza è ormai socialmente ammessa. Ho avuto il privilegio incommensurabile di ospitare e sentir muovere quattro bambini nella pancia, anche se, lo ammetto, nei momenti di farli uscire l’aspetto del privilegio non mi è sembrato il più evidente.

Non ho mai subito discriminazioni di genere. Al lavoro capita di non essere apprezzati e valorizzati, ma capita agli uomini e alle donne. E la riuscita professionale è determinante per l’identità di un uomo. Conosco molti, moltissimi uomini demoralizzati, a volte depressi per come vanno le cose nel mondo del lavoro, per la prepotenza, la mancanza diffusa di meritocrazia e professionalità.

Per questo, lo confesso, non ho mai sentito il bisogno di nessuna rivendicazione di genere. Sono molto riconoscente per le libertà che le donne delle generazioni precedenti hanno conquistato per noi, ma proprio perché le ho ricevute, e ne godo con soddisfazione, non riesco a provare nessuna rabbia in merito.

Penso invece, certo, con il cuore stretto alle donne di gran parte del nostro pianeta, provando molto sollievo per essere nata dalla parte fortunata del mondo.

Perché non si creda che io abbia assunto sostanze psicotrope e sia in preda a una specie di delirio rosa confetto e uccellini cinguettanti, ammetto che delle difficoltà per le donne ci sono: essere mamma e lavorare è una fatica bestiale. Per la legge di non penetrabilità delle ore o si sarà carenti su un fronte, o lo si sarà sull’altro. Ma non è colpa della congiura maschile. E’ la natura: i figli li fanno le femmine della specie. Le quali, poi, se vorranno o dovranno anche lavorare, finiranno inevitabilmente per piegare calzini a mezzanotte; andranno alle conferenze stampa con un rigurgito latteo sul twin set; sbaglieranno l’orario dell’antibiotico; si sforzeranno con grande perizia di non addormentarsi sulla scrivania dopo una notte passata a raccogliere vomiti; si dimenticheranno merende dell’asilo e appuntamenti fondamentali con il nuovo capo.

Quelle che decidono di puntare tutto o quasi sul lavoro spesso ce la fanno ad emergere, anche se pagando un prezzo alto sul piano della vita personale.

Fare bene tutto non è possibile, e quando non arrivo non mi arrabbio con le congiure di cui sarei vittima, ma tendo piuttosto a pensare che essere donna sia comunque una meravigliosa ricchissima avventura.

Sarà per questo che non voglio ribellarmi agli uomini, ma, riconoscendo la loro superiorità in tanti settori (e in altri la nostra), una volta trovato quello giusto ho capito che ascoltare ed ”obbedire” alla sua lucidità, la sua razionalità, non poteva che farmi del bene. E io fare del bene a lui con il mio genio femminile, il mio talento, le mie capacità.

Dopo l’uscita del libro ho ricevuto qualche bella dose di critiche. Quelle a me come persona – essendo io una mediocre razzolatrice, appunto – sono probabilmente tutte giuste, e anzi ce ne sarebbero molte altre da fare (ma certo non sarò io la delatrice, perché mi sto simpatica).

Sulle critiche alle cose che dico in Sposati e sii sottomessa invece vorrei soffermarmi, in particolare dopo avere ricevuto una densissima e intelligente mail da S. (che scrive da un paese straniero, e il correttore automatico del suo computer produce ogni tanto parole esilaranti) che da sé fornirebbe materiale per una enciclopedia.

Al solito, comunque, il cuore del problema è la sottomissione. A S. e a molte altre donne l’idea non convince, neanche se “indorata” con la spiegazione che stare sotto vuol dire sostenere, sorreggere, accogliere, e non obbedire passivamente lasciandosi schiacciare.

Sgombriamo il campo dalle banalizzazioni: sottomissione non c’entra niente con chi lava i piatti e fa le faccende di casa. Con chi fa cosa. Una donna può anche fare tutto in casa ma schiacciare suo marito in altri modi, oppure può manovrarlo subdolamente, comandarlo fingendo di obbedirgli. Tutti abbiamo sicuramente conosciuto almeno una donna di quel tipo, nelle sue infinite varianti: gatta morta, finta bambina, matriarca silenziosa, generale con la veletta, passivo aggressiva, quella modello “caro non mi sento bene ma lo faccio perché sono una santa” e varie altre versioni con molti optional.

La sottomissione alla quale mi hanno invitato tante persone sagge che ho conosciuto, e che io a mia volta ho proposto nelle lettere alle amiche, è il desiderio leale e onesto di servire lo sposo. Un servizio che, lo dico per l’ultima volta (e se qualcuno me lo chiede ancora mi suicido ingerendo questo pacchetto di nachos direttamente con la busta) può non entrarci niente con chi carica la lavastoviglie. Può significare accogliere le inclinazioni dell’altro, per esempio non organizzare una cena che a lui non va, oppure organizzarne un’altra che lui vuole. Cercare di indovinarne i desideri, anche perché essendo tutte noidesperate fishwives, sappiamo che un uomo, muto come un pesce per quel che riguarda se stesso, difficilmente esprimerà i suoi desideri in modo aperto e lineare.

Perché la donna? Perché abbiamo nel nostro equipaggiamento base un radar più sofisticato sui bisogni degli altri. Non siamo più buone, ma abbiamo il germe della nascita. Siamo noi che diamo la vita, quella del corpo e quell’altra.

Noi cominciamo, ma il lavoro grosso si fa in due. Bisogna imparare una danza fluente e leggera, anche se sono certissima che Ginger Rogers e Fred Astaire per arrivare a quell’armonia sgobbavano e si pestavano i calli e sudavano anche loro, anche lei sotto gli sbuffi dello chiffon (qualcuno una volta ha detto che Ginger Rogers faceva gli stessi passi di Fred Astaire ma all’indietro e con i tacchi).

Un’amica mi ha chiesto: “Ma lo devo lasciare poltrire sul divano? Non lo faccio crescere? Lo mantengo infantile e mammone?”

Non lo so. Penso – me lo hanno detto e l’ho anche sperimentato, le rare volte che sono riuscita a frenare la lingua – che qualsiasi cambiamento si ottenga lasciandosi inseguire con l’esempio e la bellezza.

A parte che ci saranno almeno un miliardo di cose che lui a sua volta non sopporterà di noi, se ci si vuole bene davvero si esce dalla logica delle rivendicazioni e dalle misurazioni di chi fa di più e come, ma si cerca di fare a gara per servire.

“Ma gli devo dare ragione anche se non ce l’ha?” C’era un periodo in cui la mia amica mi faceva questa domanda una trentina di volte alla settimana.

Effettivamente noi siamo abituati a pensare all’amore come qualcosa di naturale e spontaneo. Ma se ci pensiamo le cose più importanti sull’amore ce le dice il Vangelo, che quando ci invita a farci prossimo non parla di un sentimento che sgorga spontaneo, che zampilla allegro e facile. Amare in quel caso è “fare come se si amasse”. Poi i sentimenti seguiranno. Fare come se è un’ottima ricetta anche per il matrimonio, ed è in grado di ammorbidire i nodi più intricati, di scogliere vecchie incrostazioni.

D’altra parte anche il matrimonio, come il vangelo, è una cosa che si capisce con le mani, con le braccia, con le ginocchia, a volte, che quella è sempre una buona base da cui cominciare.

Costanza Miriano




Fingo di morire

Mi siedo in cucina, sullo sgabello, nell'angolo accanto al frigo.
Una tazza di latte e i miei due biscotti.
Spengo la luce e fingo di morire.
Non voglio disturbare nessuno.

PuntoG

martedì 21 febbraio 2012

I magnifici post-40 anni

La musica rimbalza dentro la stanza e fa strani giri dentro il caotico ordine della memoria e dell’oggi. Si alternano Vecchioni con “Leonard Cohen” e “Suzanne” di Leonard Cohen. Strana casualità e magico connubio. Scoprire che poi tanto strano non è da un’intervista di Vecchioni che presenta “Miledy”.

[...] nel disco ci sono canzoni d’amore scritte pensando a qualcun’ altro. In particolare una, Leonard Cohen. Parla di Venezia e di un albergo di quando mi ami, Ho imparato che il tempo è bellezza, ho imparato anche a fare l’ amore… Una canzone d’ amore matura e bellissima. Ancora una volta questione di età? L’ho chiamata Leonard Cohen perché una canzone così avrebbe potuto scriverla lui; aveva anche un sottotitolo che poi è saltato, Daria on my mind, che già rimanda ad atmosfere del passato. Dopo i 40 anni accadono strane cose: o inizi a correre dietro alle ragazzine o scopri l’ amore, quello vero, che è confidenza; piano piano capisci qual è il senso dello stare insieme nella vita, che l’amore non è solo possesso, anzi non lo è affatto, che una donna non dipende da te, che è una cosa diversa, che è altro…. Dopo i 40 anni accade anche di essere stanchi di una città, del caos, dello smog [...].
Un’immagine del post 40 anni che poco, forse, circola tra le strade. Perchè è come se a quest’età sia necessario ammalarsi di “peterpanismo”, pressappochismo, o di tristezza e malinconia. Come se non si potesse invece raccogliere quasi mezzo secolo di vita, di consapevolezza di se ed usarlo per essere finalmente e veramente dentro la vita. Con una leggerezza in più. Con leggerezza.

Come dire, cosa ne facciamo di questa seconda metà della vita? Che come dice Mafalda “Se la vita comincia a 40 anni, cosa ci mandano a fare prima?”

Insomma, citazioni e spunti di riflessione. Vediamo di venirne a capo. Partiamo da un concetto fondamentale che è quello di avere come soggetti della discussione bolle-cervello con l’intelligenza degli elettricisti e non bocce vuote. Insomma 40 anni e passa pieni e fitti di percorsi, interiori ed esteriori. Un cercare il bandolo della matassa di quest’ingarbugliato nostro essere fitta rete neuronale, ormoni, molecole, cellule, cuore e anima. Un dedalo senza alcuna indicazione, una navigazione a (s)vista, uno srotolarsi di tentativi dietro tentativi, dolori, gioie, successi, insuccessi. Mani insanguinate dalla fatica di scavare dentro una sabbia che riprecipita inesorabilmente appena uno si distrae un momento e tocca ricominciare. Inutile cercare dentro alle tasche un foglietto d’istruzione, non ci è dato averlo, il modello uomo viene venduto senza. E’ incredibile pensare che addirittura bisogna imparare a deglutire il cibo e a far pipì, ma tant’è. Credo che succeda all’improvviso, di svegliarsi una mattina ed esserci dentro, come le mappe dentro la metro che sopra il puntino rosso c’è scritto “voi siete qui”. Laddove la fatica è sicuramente ciclopica è nella zona dei sentimenti e ancor di più in quella dell’amore che è la zona più difficile da districare, dipanare e comprendere. A raccontarlo a parole dura fatica, il viverlo è ben più. Servono almeno 4 decenni per districare tutto questo.La fatica è dovuta principalmente alla difficoltà di riuscire a mediare i nostri bisogni amplificato ancor più, se possibile, dal fatto che nelle relazioni, oggi più che mai, c’è una nuova componente che è quella del proprio sentire, sconosciuta fino a una manciata di anni fa. Una relazione priva di comunicazione e di coinvolgimento emotivo, basata su convenzioni esterne e non coinvolgenti (ad esempio il matrimonio finalizzato alla riproduzione, mantenimento di proprietà terriere con la discendenza e cose del genere), non implica grossi inciampi, solo ruoli prestabiliti da seguire come in un copione. Laddove invece il ruolo centrale sono i sentimenti e la comunicazione, il copione lo si scrive day by day, a 4 mani. Solo che il percorso delle singole persone spesso non è sincrono. O spesso si perde perchè da coppia ci si sposta a genitori, e finisce che quando i figli iniziano ad essere un pò autonomi, si scopre che la coppia è ormai disintegrata, si è solo genitori, tutto qui.  (Tristemente) è solo verso i 50 anni  che “capisci qual è il senso dello stare insieme nella vita”, che comprendi davvero quali sono le cose che contano, come basta poco per essere davvero felici, come la comunicazione tra i sessi non è poi così impossibile perchè fatta di pochi e semplici codici, il senso vero di fare l'amore, l'amore vero (ndr "ti amo perchè ho cura di te" e non "ho cura di te perchè ti amo" , ma questo è un altro post). Ma è proprio per questo che (felicemente) è possibile tutto il meglio, davvero. Basta "solo" volerlo.
 
PuntoG 
 
 
 

domenica 19 febbraio 2012

Alice, un paese di meraviglie #4

Comincia con un ingresso, un cunicolo, e finisce con un'uscita.
In mezzo ci sta il Paese delle Meraviglie, Alice, il Bianconiglio e la Regina di Cuori con tutte le carte.
Un'ingresso, un'uscita, e in mezzo il viaggio.
E i biscotti che ne servirebbero a chili, perchè le porte e le stanze dentro cui entrare non hanno mai la giusta dimensione. E non basta trattenere il fiato per entrarci, o saltare per raggiungere la maniglia per aprire una porta che, per le dimensioni,  sembra quella d'ingresso di un castello. Io non so se sono i biscotti della colazione o la pappa alla frutta della mamma, ma tant'è le porte grandi a dismisura prima o poi le apriamo, ci infiliamo dentro a stanze che sembrano la casa delle formiche, e troviamo anche l'uscita. Sarà perchè, come dice Pim, in fondo a ogni dolore c'è una porticina, come quella da cui esce Alice...

PuntoG





lunedì 13 febbraio 2012

14

La panetteria è decentrata il giusto per riuscire a trovare un parcheggio li vicino, in questi giorni che i cumuli di neve invadono  la città.  E poi, fa le bugie ripiene più buone e golose della zona.  Abbandonare l’abitacolo riscaldato, è un gesto quasi eroico, visto il freddo di questi giorni.  La ricompensa ripagherà. Mentre cammino sommersa dal cappello che fa un po’ Montmartre, quasi finisco dentro un mostro di palloncini rossi (un cuore) che dovrebbe far da richiamo ad un’erboristeria. Il mostro ondeggia, s’inclina, sembra voglia sdraiarsi sul marciapiede per scomparire. Si risolleva, invece, e riprende quell’ondeggiare inquietante.  Dentro c’è una gran folla, ad annusare profumi, creme e tisane, incalzata dalla fatidica data che incombe. Come il cuore all’ingresso.  “Se non compri un regalo non ami”, sembra essere lo slogan di questi giorni. A me fan venire tristezza questi acquisti forzati.  Sarebbe bello se, almeno, ci fosse un biglietto con su scritto “non ho cura di te perché ti voglio bene ma ti voglio bene perché ho cura di te”.  E questa musica qui, come colonna sonora.

mercoledì 8 febbraio 2012

Del dipanarsi e altre cose

Stamattina, da dentro il finestrino, mentre all'alba percorrevo la solita strada e col bianco intorno che rischiarava, ho capito cos'è per me guidare.
E' come fare un ciclo dentro la lavasciuga dopo avere corso e sudato.
Sono scesa dall'auto morbidamente lavata, profumata e stirata.

PuntoG

giovedì 2 febbraio 2012

L'uomo blu

L'uomo blu potrebbe tranquillamente chiamarsi uomo di ghiaccio. Non per l'imperturbabilità e neppure per il cuore privo di emozioni, anzi, nonostante faccia di tutto per farlo credere. Vive in bilico tra le vampate del caminetto che sembra l'Etna in eruzione e la camera del gelo. Quest'ultima è la sua alcova dentro la quale convivono con lui una manciata di stalattiti appese all'angolo del soffitto accanto alla finestra e sotto il comodino e un pinguino migratore, finito nell'unico posto rassomigliante all'Artico. Nell'alcova l'uomo blu non legge libri, la montatura di metallo degli occhiali potrebbe appiccicarsi alla pelle delle guance. Aspetta Morfeo contando le anatre, quelle inseguite per recuperarne le piume utilizzate per riempire il sacco sotto cui giace sepolto in attesa dell'alba. Le energie utilizzate durante la notte per far vibrare i peli del corpo al fine di staccare microstalattiti che si formano a ritmo sostenuto nonostante le oche di cui prima, vengono recuperate il mattino dopo con un tuffo dentro il barattolo di marmellata di arance da un chilogrammo. Il gelo lo tempra, mai avuto problemi di salute. Quando esce di casa, lo affronta come una cipolla. Strati di pile uno sull'altro, a partire dalle due paia di guanti. Per fortuna ha un fisico asciutto, altrimenti potremmo chiamarlo, anche, l'omino Michelin. Io non so se il gelo gli fa davvero bene, però ad ascoltarlo si sorride sempre. 

PuntoG